“Se per Anselmi il progetto è un “atto di ristrutturazione tendenziosa”, che “può e deve dare senso” alle tracce disseminate dal lento processo di corruzione e rinascita che chiamiamo storia, l’ambiguità semantica e spaziale del muro sembra esserne uno dei cardini compositivi. Il muro, nell’accezione in cui lo impiega Anselmi, non è un semplice diaframma, una struttura verticale definibile attraverso la sua superficie, quanto un frammento architettonico tridimensionale, segnato da una vigorosa matericità, la cui perentoria consistenza occupa lo spazio prospettico con persuasiva espressività. Concettualmente il muro di Anselmi è un reperto archeologico, il lacerto residuo ed eloquente di realtà costruttive ed urbane remote, tuttavia ancora in grado di ordinare il presente e orientare il futuro. Il “muro” di Anselmi, pertanto, denuncia la storia come “antecedente logico dell’architettura” (e la geometria come condizione di coerenza formale)”1.
Ed è un alto setto murario, dall’andamento sinuoso, a chiudere, a valle, il lungo fronte urbano del cimitero di Parabita. Ancora muri, avvolti a spirale, per incidere nel declivio più a monte i percorsi sepolturali semi-ipogei che attingono, nel disegno planimetrico dell’impianto, alle volute simmetriche di un capitello composito.
Perchè il profilo di un inatteso frammento dell’architettura classica? La risposta secondo Anselmi non è in significati rituali, o tipologici, o costruttivi, ma si trova, appunto, nelle categorie della geometria e della storia, ovvero nel rigore e nella coerenza della forma, intesi come concetti costitutivi dell’architettura. Evocare, nella planimetria del campo santo, la matrice geometrica del più “naturalistico” tra gli elementi dell’ordine architettonico, significa legare il progetto contemporaneo all’autentica sostanza spaziale del tempio, visto come simbolo della matrice naturale ed archetipo imprescindibile per ogni possibile sviluppo della ricerca architettonica.
Questo il sofisticato processo di elaborazione della legge compositiva con cui i molteplici e differenti episodi spaziali del cimitero vengono riuniti in un insieme coerente, costruito in elevazione unicamente con possenti murature litiche.
Soltanto muri a Parabita, spessi setti portanti, lunghe superfici parietali omogenee, prive di incisive caratterizzazioni basamentali o di coronamento, e soltanto il carparo – il tufo di Gallipoli – per dar vita ad una muralità piena, isodoma, ad un permanere dell’opera quadrata regolare così infrequente nell’architettura contemporanea.
Nel punto centrale del campo santo, baricentro geometrico e concettuale dell’intero impianto compositivo, i setti convergono individuando un ventaglio di accelerazioni prospettiche e la teoria delle alte e severe aperture dell’ossario. Nell’inflettersi del fronte d’ingresso e nei percorsi a spirale delle aree di sepoltura, l’immota presenza dei muri si fa più dinamica, assumendo quasi i caratteri di una sontuosa macchina scenica barocca. Nell’area delle cappelle private, nella piccola città dei morti dall’impianto ortogonale, la muratura in conci di carparo è diversamente declinata in variati dispositivi di posa.
(Alfonso Acocella)
Note
*Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Claudia Conforti, “L’apologia dell’architettura nell’opera di Alessandro Anselmi” p.8, in Claudia Conforti, Jacques Lucan, Alessandro Anselmi. Architetto, Milano, Electa, 1999, pp. 198.
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